Panel of discussion “Innovation and visionary start-up founders: the importance of intellectual property”. Osservazioni sulla limitata propensione all’investimento in Italia.

Durante il panel “Innovation and visionary start-up founders: the importance of intellectual property”, tenutosi nei nostri studi in occasione del World Intellectual Property Day 2012, è stato sollevato, in modo inaspettato, un interrogativo che ruota intorno alla concreta difficoltà d’investimento nel nostro Paese. Ci è stato chiesto, in altri termini, il motivo per il quale chi potrebbe investire in Italia decide di non farlo. Pur non essendo questa la sede adatta (dovremmo, infatti, limitarci a trattare questioni prettamente giuridiche), vale la pena di soffermarsi sulle ragioni di questa limitatissima propensione all’investimento nel nostro Paese, rendendo accessibili le osservazioni emerse durante il panel anche ai non partecipanti allo stesso.

Le argomentazioni che seguono partono da un presupposto: l’Italia è il paese europeo dove è più difficile creare business, nonché uno dei più ostici al mondo (si guardi il Doing Business Report 2012). In Italia gli investimenti – siano essi riguardanti il manufacturing, siano essi relativi al settore dei servizi – sono generalmente limitati. Tristemente nota, poi, è la pochezza degli investimenti in ricerca e sviluppo. Le aziende italiane avrebbero dovuto avere tassi d’investimento almeno similari alle loro omologhe straniere. Ciò non è avvenuto, generando, negli ultimi 20 anni, un ormai incolmabile ritardo delle PMI nella dotazione di strumenti volti a creare qualità reale – organizzazione, sicurezza, informatizzazione, rispetto dell’ambiente – in grado di renderle appetibili oggetto d’investimento; quello che in passato era da alcuni considerato un elemento di flessibilità, di alleggerimento della struttura aziendale, un qualcosa in grado di garantire un vantaggio competitivo si è trasformato, di fatto, in un gap strutturale. La generale organizzazione e attività informativa, date per scontate dai mercati mondiali, preoccupano le imprese italiane (moltissime) che per questioni di cultura imprenditoriale non sono in grado di affrontarle. L’esigenza di contabilità trasparente e controllata, quindi, da organismi terzi è da decenni regola usuale nei mercati che col nostro si pongono in rapporto di concorrenza; non dissimile è il discorso per l’impiego di sistemi di programmazione e di gestione. La piccolissima dimensione delle imprese italiane e la distanza da standards accettati a livello globale impedisce l’accesso a risorse estere che presuppongono modalità operative di tal fatta.

Quando si parla di investimenti si tende generalmente a pensare ad un qualcosa di circoscritto e settorializzato, dimenticando che ogni investimento – in un mondo senza più confini commerciali – non è altro che una scommessa a lungo termine su un “sistema Paese”; una scommessa che può essere azzardata da chi dispone di capitali, ossia da  soggetti dotati di competenze che consentono una valutazione delle alternative. Una impresa straniera interessata ad investire all’estero condurrà necessariamente una sorta di due diligence sul “sistema Paese” degli Stati appetibili, valutando sostanzialmente cinque elementi cardine: il mercato; il mercato del lavoro; il sistema scolastico; le infrastrutture; il rapporto con le amministrazioni.

Mercato

Il mercato italiano (ma lo stesso può ormai dirsi di tutto il mercato europeo) è composto da consumatori benestanti e generalmente sofisticati, se comparato al mercato americano o asiatico. Nel consumatore europeo, però, così come in quello americano, è cambiata la propensione alla spesa, muovendosi quest’ultimo per la sostituzione di ciò che già possiede. Questo cambiamento importa una riduzione della spesa in assoluto ed una riduzione della qualità di spesa. Ciò fa  diventare l’Italia un mercato non più appetibile per prodotti di fascia alta o altissima (noti marchi della moda italiana, infatti, iniziano a valutare la quotazione in Oriente, mercato consono alle nuove prospettive).

Mercato del lavoro.

L’offerta di lavoro, in tempi di difficoltà estrema come quelli in atto, è ampia in tutta Europa. L’Italia, nel confronto del costo medio dell’offerta lavorativa, si difende egregiamente dai concorrenti europei ed americani. Gli investitori più attenti non possono non valutare se la disponibilità di mano d’opera di buon livello qualitativo sia in grado di compensare una rigidità normativa e una produttività distante da quella dei Paesi più competitivi.

Quando si parla di produttività non bisogna dimenticare che questa è fortemente influenzata da due fattori: efficienza e remunerazione. Il lavoro nel nostro Paese è al contempo poco remunerato e poco efficiente. Ciò rende aspro lo scontro imprese/sindacati: le aziende (soprattutto quelle dove il costo del lavoro è in rapporto preponderante  col costo di produzione) chiedono di poter effettuare una differenziare salariare in considerazione della produttività; i sindacati, consci del basso valore in termini assoluti del salario medio, difendono lo status acquisito resistendo alle richieste di flessibilità.

Sistema scolastico.

Il confronto sul sistema scolastico è impietoso. La spesa per istruzione è più bassa della media europea. Letteralmente imbarazzante è la disponibilità di fondi da destinarsi alla ricerca rispetto alla spesa per il personale. La spesa dovrebbe essere focalizzata esclusivamente su pochi atenei di indiscutibile qualità globale; di atenei, ossia, in grado di aspirare a riconoscimenti internazionali che consentano di attirare investimenti dall’estero. La piccolezza dell’industria italiana non aiuta gli investimenti in ricerca condotta da privati; la quasi totale assenza di fondi pubblici per la ricerca condanna il nostro Paese alla parte bassa di tutte le classifiche di settore.

La ricerca è ormai globalizzata. La ricerca merita un approccio serio e non può prescindere da investimenti costanti e di lungo periodo, da una pianificazione ragionata ed impeccabile. Dovrebbe, inoltre, essere gestita con merito ed efficienza. In Italia è limitato persino il matching fund. L’Italia è imparagonabile a competitors quali India, Corea, Cina, Turchia, Russia, Francia, Germania, Danimarca, Canada, Svezia.

Infrastrutture.

Il sistema infrastrutturale italiano scoraggia qualunque seria politica d’investimento.

In Italia il costo dell’energia è tra i più alti al mondo. I trasporti avvengono in modo preponderante su gomma. Le infrastrutture ferroviarie sono penalizzate al punto che le ferrovie, in un disperato tentativo di recuperare competitività, (anziché moltiplicarli) razionalizzano i raccordi industriali esistenti sul territorio, rendendo non concepibili politiche di promozione del trasporto su rotaia.

Il ritardo accumulato nella realizzazione di opere di trasporto merci (ferroviaria e portuale) è così accentuato da metterne in discussione la realizzazione stessa. Il boom economico vissuto dall’Italia nel dopoguerra è stato alimentato dall’aver goduto per buona parte della seconda metà del secolo scorso d’infrastrutture competitive. Negli ultimi venti anni è stato accumulato un gap estremamente grave, che aumenta in modo esponenziale di anno in anno.

Rapporto con le amministrazioni pubbliche.

A nostro avviso è questo l’aspetto più importante nelle decisioni d’investimento (sia che si tratti di imprenditore italiano, sia che si tratti di imprenditore straniero) ed è quello nella quale la differenza tra l’Italia ed il resto del mondo industrializzato è maggiore.

Il “sistema Italia” presenta tutta una serie di disincentivi, ravvisabili nel fatto che la nostra legislazione non muove da basi che favoriscano gli investimenti, essendo strutturata per difendere il territorio dall’inevitabile impatto che importanti investimenti potrebbero avere. Mancano elementi di certezza riconducibili alle amministrazioni italiane, ravvisabili in una qual sorta di disomogeneità delle stesse. Le amministrazioni propense ad attirare investimenti sono costrette all’applicazione di complesse, e non seriamente vagliate, procedure di controllo che prescindono, però, dall’esistenza di strutture adeguate (ciò comporta una lievitazione dei costi che si risolvono in oneri di urbanizzazione estremamente elevati). Le tempistiche sono assolutamente incerte ed i ritardi non seriamente sanzionati. Per rendersi conto della abissale differenza con realtà con le quali l’Italia dovrebbe competere può richiamarsi l’esempio degli USA dove è il Sindaco a dover procurare i permessi per gli investimenti sul proprio territorio e l’amministrazione comunale ha l’onere di dimostrare la propria sollecitudine a pena di responsabilità.

In moltissimi Comuni italiani mancano addirittura strumenti di programmazione urbanistica. Nel caso siano presenti, non sono aggiornati, costringendo l’investitore a scelte funzionali a Piani Regolatori approvati decenni prima (e impregnati di disomogenee varianti).

Il discorso può ripetersi per ogni tipo d’investimento. Si pensi al fatto che la media per l’approvazione di piani di ricerca si aggiri in Italia sui 300 giorni che saranno seguiti da altri 300/500 per il primo anticipo del cofinanziamento pubblico.

Massimiliano Causo

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